“L’invidia è la religione dei mediocri. Li consola, risponde alle inquietudini che li divorano e, in ultima istanza, imputridisce le loro anime e consente di giustificare la loro grettezza e la loro avidità fino a credere che siano virtù e che le porte del cielo si spalancheranno solo per gli infelici come loro, che attraversano la vita senza lasciare altra traccia se non i loro sleali tentativi di sminuire gli altri e di escludere, e se possibile distruggere, chi, per il semplice fatto di esistere e di essere ciò che è, mette in risalto la loro povertà di spirito, di mente e di fegato. Fortunato colui al quale latrano i cretini, perché la sua anima non apparterrà mai a loro.“
Carlos Ruiz Zafón, da “Il gioco dell’angelo”
Inizio questa riflessione sul sentimento dell’invidia con una citazione tratta dal libro di Zafon “Il gioco dell’angelo” perché mi sembra che l’autore colga in forma poetica ciò che, a mio parere, è l’essenza di questa condizione umana spesso negata e celata.
Dal latino in-vedere, guardare contro, con ostilità, l’invidia si riferisce a colui che vive nel risentimento per la felicità e benessere altrui e quindi in uno stato di insoddisfazione, pena e sofferenza.
Dante colloca gli invidiosi nel Purgatorio e li rappresenta con gli occhi cuciti da fili di ferro come punizione per aver gioito nel vedere le disgrazie altrui.
Si sa, l’invidia è annoverata tra i sette vizi capitali ma, come evidenzia Galimberti, a differenza degli altri vizi, è l’unico che non genera piacere, anche se è molto diffuso e ciascuno di noi ne ha fatto esperienza nei termini di essere invidiato o aver invidiato.
Egli afferma che le sue radici affondano probabilmente in quel nucleo profondo che costituisce la propria identità che, per costituirsi e crescere ha bisogno di riconoscimento.Ma quando questo riconoscimento manca, l’identità si rende incerta, sbiadita; allora può subentrare l’invidia che vorrebbe concedere, a chi è incapace di valorizzare se stesso, una salvaguardia di sé demolendo l’altro.
In tal senso, l’invidia è più un meccanismo di difesa, un disperato tentativo di salvaguardare la propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri.
L’invidia, dunque, è un’emozione complessa che fa riferimento ai valori e all’immagine di sé. In particolare, alla sua base si riscontrano sentimenti di mancanza, di rivalità e senso di inferiorità.
In letteratura vi è accordo tra gli studiosi nel ritenere che alla base dell’invidia vi siano dinamiche di rivalità e mancanza: si invidia qualcosa e/o qualcuno perché si vorrebbero possedere oggetti, qualità o condizioni che mancano; tuttavia, vi è discordanza rispetto alla funzione dell’invidia. In altre parole, tale emozione è da intendersi come completamente negativa perché motiva ad azioni ostili e aggressive verso gli altri e se stessi, oppure vi sono aspetti benevoli che possono sfociare in atteggiamenti utili rispetto agli scopi dell’individuo?
Secondo Castelfranchi Miceli e Parisi (1988) l’invidia ha come fulcro l’ostilità, chi non consegue uno scopo desiderato soffre vedendo che gli altri invece sono in grado di raggiungerlo e prova ostilità per chi gli causa questa sofferenza; un’altra ragione di ostilità risiede nella constatazione che l’invidiato presenta una meta come raggiungibile e questa presa di coscienza di realizzabilità di uno scopo da parte di altri ma non da parte del sé determina una autosvalutazione della propria idea di sé che esce perdente dal confronto sociale.
La psicologia dell’invidia cattiva dunque, si basa sul presupposto: “se io non posso allora neanche l’altro”, nel senso che il confronto con l’altro, generando la consapevolezza della propria mancanza, attiva sentimenti di odio, rabbia, frustrazione, senso di inadeguatezza. Si è talmente presi dallo svalutare l’altro che si perdono di vista le proprie risorse e potenzialità e, come nella celebre favola della Volpe e l’uva in cui la volpe, non potendo raggiungere l’uva dice che è acerba, l’invidioso sminuisce tutto ciò che ha intorno per nascondere i propri limiti di insicurezza e scarsa autostima, rimanendo bloccato nel risentimento e vergogna.
Tuttavia, altri autori parlano di un’ invidia “buona” che porterebbe la persona ad automigliorarsi a seguito del confronto con l’altro. In tal senso, può esserci un’identificazione positiva con l’altro e il sentimento speculare e co-presente all’invidia è l’ammirazione, nel momento in cui accanto al riconoscimento di meriti e qualità altrui non vi è la propria autosvalutazione e la sensazione di inferiorità.
In questo caso si parte dal concetto: “se l’altro può, allora posso anch’io”, dove l’invidioso, dotato di un buon senso critico, riesce a cogliere la ricchezza delle differenze e non la mancanza, riconosce i propri desideri, esplora le proprie possibilità ed accetta i propri limiti che lo spingono a migliorarsi anziché rimanere bloccati nella frustrazione. L’invidia, allora, può evolvere in un incentivo a crescere, mettersi gioco, avere fiducia in se stessi.
In generale, l’emozione dell’invidia è qualcosa che non si ammette volentieri e tende ad essere negata da chi la prova. Diversi autori (Girotti, Marchetti e Antonietti, 1992) hanno confermato che l’invidia risulta essere l’emozione coscientemente più rifiutata, le persone negano di provarla e di parlarne, mentre attribuiscono notevolmente agli altri tale emozione.
Riscontro spesso questo atteggiamento da parte delle persone sia in ambito clinico sia a livello personale e quel che più mi sconcerta è che talvolta, per dare un senso al comportamento, altrimenti inspiegabile degli altri, si ricorre all’invidia mettendosi nella condizione di invidiato anche se palesemente non ci sono le condizioni e soprattutto negando di provare gli stessi sentimenti.
Confesso che, in queste circostanze, mi ritrovo a chiedermi se basta invocare l’invidia per mettere a posto le situazioni, scaricando sull’altro la responsabilità degli eventi e ponendo il soggetto nel ruolo di vittima impotente (ma anche rivalutata nel suo ruolo di invidiato!) di fronte alla potenza ineluttabile di questo sentimento.
La potenza dell’invidia, dunque, sembra pervadere tutti universalmente nella sua duplice forza negativa e positiva e, se è vero, come dice qualcuno, che l’invidia regge il mondo, allora come possiamo gestirla?
Io penso che se cominciamo a considerarle l’invidia come un’opportunità, potremmo imparare a guardare al lato positivo di questa e di tutte le emozioni e a ciò che ci può trasmettere. Un primo passo è non nasconderla a noi stessi, imparare a riconoscerla ed accettarla sviluppando la capacità di ironizzarci su, di ridere di sé per alleggerire il senso di oppressione e infelicità ed esaminando le origini del proprio senso di inferiorità ed inadeguatezza per portarci su livelli più elevati di conoscenza di noi stessi.
Significa non sottovalutare la propria posizione e relativizzare i vantaggi dell’altro, scoprire i propri obiettivi impegnandosi a trasformare i limiti in risorse, le mancanze in possibilità.
Fortunatamente, negli altri vedo solo le cose belle e ammiro chi riesce nella vita ad arrivare o ad avere successo …. a me piace la mia vita e come sono fatto, pur essendo un operaiaccio di serie B….
Grazie Maurizio
Un bell’ articolo che ci fa capire quanto dannosa o positiva può essere un sentimento come l’invidia.
Molto interessante. Grazie.
Seguiranno articoli sugli altri sei vizi capitali?
Spero di si, vediamo cosa risponde l’autrice
Potrebbe essere, l’intenzione è quella di scrivere lasciandomi ispirare da ciò che mi incuriosisce i vizi capitali sono indubbiamente affascinanti
Aspetterò fiduciosa!