Prosegue il racconto della vita di Brigida che, in questa seconda parte, si concentra sul rapporto con la famiglia che ha inevitabilmente scolpito buona parte della sua personalità e di tutti i meccanismi psicopatologici che ne sono derivati.
LA MADRE
La terapia è faticosa e quando si parla di mia madre lo è ancora di più. L’ho detto più volte alla psicologa di non toccare questo argomento, non ce la faccio, ma lei insiste e puntualmente ci finiamo sopra, evidentemente è una tappa obbligata che devo affrontare.
Sono nata in una famiglia dove l’essere femmina costituisce una vera disgrazia, vali meno di niente!
Mia madre, donna dai lineamenti fini e delicati, ha dedicato tutta la sua vita a coltivare la terra e allevare animali, trascurando completamente la sua femminilità e bellezza che sono sfiorite presto.
Forte e decisa, ha sposato mio padre per ripicca verso la famiglia che la voleva sposata ad uno locale, ma l’affare si è rivelato pessimo, il loro rapporto è stato disastroso fin dall’inizio per gli atteggiamenti violenti di mio padre che ci ha sempre paralizzato per la paura.
Quando penso a mia madre è difficile dire cosa provo, perché, se da un lato non ha mai smesso di accanirsi contro di me con le sue critiche spietate che mi hanno annullato, se non ha mai impedito i rapporti incestuosi, dall’altro, so che ha fatto quel che ha potuto per sottrarci alle costanti minacce di morte di mio padre.
Accadeva che quando lei riusciva a prendersi cura dei figli, questo sembrava infastidirlo molto fino a farlo scatenare. Era come se non sopportasse che ai figli fossero dedicate delle attenzioni, forse perché neanche lui le aveva ricevute. Con la psicologa abbiamo ripercorso la sua storia e ho capito che anche lui ha sofferto molto, la morte prematura della madre, l’abbandono della zia, il collegio, un’infanzia di privazioni e un ambiente familiare tirannico e prevaricatore, vicino addirittura alla malavita del posto, devono spiegare il suo tremendo carattere e l’incapacità di mostrare affetto, ma sono contenta che sia morto, perché solo così potevo liberarmi di lui. Mio padre è stato un maledetto mostro che ci ha tenuto in ostaggio, oppressi da un incessante senso di allarme e di paura. Ringrazio Dio che sia morto e, insieme a lui, mio zio che non è stato da meno.
Dopo la separazione sono tornata a casa dei miei e non avrei dovuto, lo so. Vivere con una donna che nega quello che è successo e sconferma continuamente tutto ciò che faccio mi mette a dura prova, ma non posso permettermi altro, sia per questioni economiche sia perché così posso stare più vicino a mio figlio. Ma tutto ha un prezzo e il mio è quello di dover sottostare ai capricci di un’anziana che oramai vive in un suo mondo, convinta di aver fatto tutto bene e consapevole di aver bisogno di me anche se non me lo dirà mai.
Si lamenta, brontola, ma alla fine vince sempre, è la più forte ed io sono solo un prodotto sbiadito che non ha né la sua forza, né la sua tenacia. Non è facile dover ammettere di essere alla sua mercè, perché segna una grande sconfitta, ma mi permette di rassegnarmi e sopportare meglio la realtà.
Mia madre resta una figura assolutamente enigmatica per i suoi comportamenti, molti dei quali incomprensibili, come la decisione di non separarsi da mio padre, immagino per orgoglio, perché avrebbe dovuto ammettere di aver sbagliato a scegliere lui o magari per proteggerci.
Mi chiedo perché si sia tenuto in casa mio zio per 34 anni permettendo anche a lui di spadroneggiare sulle nostre vite, perché ha prediletto così tanto mio fratello instaurando un rapporto quasi morboso e riservando a me disprezzo e noncuranza.
Sono interrogativi destinati a non avere risposte, ma solo ipotesi che neanche mi piacciono.
La psicologa mi spinge a rimanere concentrata sul mio ruolo di madre, sottolineando più le differenze delle somiglianze con mia madre; dice che sono maggiormente capace di prendermi cura di mio figlio, di saperlo proteggere di più, questo mi aiuta, è importante per me prendere le distanze da mia madre, ma prima che sia convinta del tutto passerà tempo, la strada è lunga.
LE DIFESE
Che cosa è diventata Brigida con tutto il carico di dolore e sofferenza che si porta dentro?
Sul piano clinico attraversa in pieno tutte e tre le dimensioni che misurano il livello di gravità degli abusi subiti:
- Il tipo di abuso subito e la durata: dai racconti si evincono abusi molto gravi che abbracciano l’ambito fisico, sessuale e psicologico e, in ogni caso, sembrano essere durati a lungo in un clima di minaccia e paura.
- L’età e le risorse individuali di cui dispone: gli abusi sono iniziati in un’età precocissima senza che vi sia stata la possibilità di sviluppare adeguate risorse per potersi difendere.
- L’identità dell’abusante: più figure, nell’ambito familiare hanno avuto contatti di tipo sessuale e violento con lei.
Brigida non scende mai nei dettagli, né io glieli chiedo, aspetto che sia lei a farlo quando se la sente, forse è anche un modo per proteggere me stessa da particolari aberranti che turbano non poco. In ogni caso, l’insieme dei traumi interpersonali vissuti, interferendo con il suo normale sviluppo psichico, affettivo e relazionale, hanno alterato le 6 macro aree comportamentali, le cui manifestazioni sintomatologiche determinano un quadro psicopatologico rilevante e complesso.
- La regolazione delle emozioni e degli impulsi: Brigida incontra moltissime difficoltà a gestire emozioni intense come la rabbia che si manifesta attraverso esplosioni incontrollate. Altre volte, invece, si presenta profondamente depressa, i pensieri negativi, persino la postura, ripiegata su se stessa risente di questo stato. A questo si aggiungono comportamenti auto lesivi (abbuffate di cibo), tendenze suicidarie (2 tentativi), scarsa capacità auto protettiva (fidanzati violenti, inadeguati, incidenti…)
- Attenzione e consapevolezza: riguarda il meccanismo di dissociazione, essenza del trauma. L’esperienza di vita di Brigida è frammentata cosicché ricordi, immagini, sensazioni talvolta emergono in modo improvviso e involontario. E’ capitato che facesse riferimento per es. a persone che la riportavano indietro con la memoria, oppure a situazione che riattivavano il vissuto di invisibilità cosa che la manda fuori di testa. La sua memoria è caotica, disorganizzata e non adattiva come quella ordinaria. Te ne accorgi quando, all’improvviso interrompe il flusso delle nostre riflessioni per raccontare un qualche episodio riapparso dal passato, come se sentisse un bisogno irresistibile di tirarlo fuori senza un vero scopo, oppure quando un banale evento del presente funge da stimolo per rimandarla nel passato.
- La percezione di sé: disastrosa! Senso di impotenza, scarsa autoefficacia, sensazione di sentirsi danneggiata,, senso di colpa e di vergogna, bassa autostima, rassegnazione, non sentirsi compresa, vista, considerata, Brigida rispecchia pienamente le caratteristiche di quest’area che, a mio parere, risulta la più compromessa. E’ in gran parte consapevole di questi aspetti non riconoscendosi alcuna possibilità di cambiamento.
- I rapporti interpersonali: il tratto che accomuna la maggior parte delle sue relazioni è l’incapacità di mettere le giuste distanze con le persone verso le quali spesso mostra un’eccessiva intimità e vicinanza; io credo che questo sia un modo per sentirsi speciale, così come il porsi come “infermiera” che si prende costantemente cura dell’altro, unico ruolo riconosciutole dalla famiglia.
- Somatizzazione: mangiare, ingrassare fino a dover ricorrere all’ intervento chirurgico è stato il modo di Brigida di provare a rendersi visibile somatizzando la profonda amarezza di tutta una vita.
- Sistemi di significato: la visione che ella ha di se stessa è tutta sbilanciata verso l’amarezza e la disillusione che non le permettono di riconoscersi una qualche forma di valore e di sentirsi padrona della propria vita e delle proprie scelte.
La storia di questa donna, dal punto di vista dei suoi sintomi, affonda le radici in un’ esperienza primaria in cui si è andato progressivamente strutturando un attaccamento disorganizzato, dove quelle stesse figure che dovevano garantire sicurezza e protezione, sono state invece fonte di una “paura senza fine”. Il risultato? Lo descrivo con le parole di Van Der Kolk, uno dei più importanti e noti studiosi in questo campo: “…Se non si dispone di un senso di sicurezza interno, è difficile distinguere la sicurezza dal pericolo. Se ci si sente costantemente obnubilati, situazioni potenzialmente pericolose possono farci sentire vivi. Se ci si convince di essere una cattiva persona (altrimenti per quali motivi i genitori ci avrebbero trattato in modo orribile?), ci si comincia ad aspettare che le altre persone ci tratteranno in modo orribile. Probabilmente ci si merita tutto questo e, comunque, non c’è niente che si possa fare in merito. Quando individui disorganizzati hanno delle auto rappresentazioni come queste, sono sostanzialmente programmati per essere traumatizzati da esperienze successive…”