La lunga notte senza luna (prima parte)

Inizia

Quello che vi presento è un incrocio tra un resoconto clinico, un racconto, una tesina e una testimonianza. In ambito psicologico il resoconto è un prezioso strumento utilizzato nelle supervisioni per la discussione dei casi, per trarre utili suggerimenti ai fini psicoterapeutici, per un confronto sui vissuti emozionali che ogni caso attiva.

L’idea del racconto- tesina invece nasce dalla partecipazione ad un Master sul trattamento multiprofessionale dei minori vittime di violenza che prevedeva, come prova finale, la possibilità di scegliere tra un elaborato classico, un progetto e un racconto; ho scelto quest’ultimo, volevo condividere una storia! Infine, la testimonianza, quella di una donna che ha cercato di dare un senso diverso alla sua storia che non fosse solo quello della disperazione e pena. Çon lei si entra nel mondo dell’indicibile e dell’impensabile poiché è difficile immaginare e ancor più credere che possano accadere certe situazioni. Non ho alterato nulla di quanto da lei riportato perché l’intento era misurarsi con il coraggio di raccontarsi e provare a liberarsi dal peso dei segreti.

Il racconto si articola in 6 paragrafi: in tre Brigida parla in prima persona ripercorrendo la sua vita, negli altri è la psicologa ad esporre il proprio punto di vista clinico con riferimenti teorici. A questi se ne aggiungeranno altri 2 che costiuiscono un aggiornamento della vicenda a distanza di 5 anni.

VIOLENZA

Esco ora dalla psicologa, devo andare a riprendere mio figlio che dall’altra parte dell’edificio mi starà aspettando. A quest’ora c’è confusione, arrivano i bambini per il dopo scuola, le educatrici li separano nelle varie stanze, alcuni intonano un coro, ma io non li ascolto, mi sento frastornata per altro.

Nella testa risuona ancora l’eco della domanda della psicologa: “…lei quando ha incontrato la violenza per la prima volta?…”

Che cosa vuol dire? Nella mia vita è sempre stato così; se vado indietro con la memoria, i ricordi, anche i più lontani, hanno tutti lo stesso sfondo, le sfuriate incontrollate di mio padre, i suoi sfoghi sugli animali quando non poteva farlo su di noi, il terrore di quel coltello sempre presente, pronto a scattare alla minima infrazione di una delle sue regole imprevedibili, l’odore penetrante del letame che ci versava addosso se non finivamo in tempo le mansioni che ci assegnava… è stato così sempre.

Qualche tempo fa, ascoltando alla tv un caso di cronaca di una bambina violentata e poi volata giù dal palazzo, mi è venuto in mente un ricordo, più che altro sensazioni, dovevo essere molto piccola, 3-4 anni, sento il calore di qualcosa di liquido che scende lungo la schiena, nelle orecchie il rumore del vento che mi passa attraverso e che ancora oggi mi disorienta. Solo dopo molto tempo, mettendo insieme a fatica le immagini, l’orribile verità ha preso forma ai miei occhi: mio padre mi aveva sospeso nel vuoto minacciandomi di lasciarmi cadere se avessi rivelato quello che mi aveva appena fatto.

Crescendo, le cose non sono migliorate, la violenza ha continuato a seguirmi come una compagna fedele che offre con devozione i suoi servigi. Non era solo da mio padre che mi dovevo difendere, c’erano i palpeggiamenti insistenti di mio zio, le molestie fastidiose di un vicino, chiunque sembrava in diritto di prendersi delle libertà con me.

La solitudine e la disperazione che mi assalivano mi spinsero tra le braccia di mio fratello che mi accolse senza remore, suggellando un legame malato e morboso che mi fece perdere ogni senso del limite. Oramai vivevo in un clima dove la promiscuità era ammessa a tutti i livelli: padri e figlia, zio e nipote, fratello e sorella ed io non riuscivo ad oppormi.

Ancora una volta mi venne incontro la violenza che mi suggerì una soluzione: se mi fossi uccisa tutto sarebbe finito.

Tentai il suicidio a 19 anni, ma non vi riuscii, non ero capace neanche di ammazzarmi.

Dovevo fare qualcosa per provare a sfuggire all’orrore della mia famiglia. Volevo una vita normale, sposarmi, avere una famiglia, lavorare, di fatto ho fallito su tutti i fronti!

Il primo ragazzo amava praticare il sadomaso, come se non ne avessi avuto abbastanza di esperienze estreme!

Il secondo era affezionato alla droga più che a me al punto che si accorgeva di me solo quando bisognava portarlo in ospedale. All’ennesima overdose sono riuscita a mollarlo!

L’ultimo, è stato il mio capolavoro! Nei primi tempi era bello, lui, dolce e premuroso, mi teneva per mano, sembrava perfetto, ma in fondo, all’inizio lo sembrano tutti. Poi la lenta discesa verso l’inferno, 10 anni di umiliazioni, tradimenti, soprusi che avrei anche continuato a subire se non fosse stata per quella frase: “Mi sono messo con te perché non ho trovato di meglio”. Allora ho detto basta e l’ho lasciato. Ma lui no! Non si è rassegnato e sono cominciati i pedinamenti, gli appostamenti fuori scuola, gli interrogatori al bambino sui miei spostamenti e frequentazioni, le minacce a quanti si avvicinavano, l’inferno continuava.

Per fortuna una denuncia e un’ingiunzione del Tribunale lo hanno convinto a tenersi lontano ed oggi, finalmente ho un po’ di pace.

A parte la delusione e l’amarezza, questa storia ha lasciato un segno ben più importante, nostro figlio Raffaele, la mia gioia più grande, ma anche la mia più grande preoccupazione.

Spesso, guardandolo, mi chiedo se sarà lui l’erede del cospicuo patrimonio di violenza accumulato negli anni, se anche lui sarà risucchiato dai gorghi impetuosi di quella furia che apparteneva a mio padre ma che talvolta sembra impossessarsi anche di me. Temo questo più di ogni altra cosa e spero che la terapia mi aiuti a tenere a bada il mostro di rabbia, odio e rancore che alberga in me da tutta una vita.

IL TRAUMA

Brigida mi inquieta. Ogni volta che viene in terapia non sai mai con quale spirito arriverà. Certo questo è di tutti i pazienti, ma per lei le oscillazioni di umore sono molto accentuate. Può succedere che appaia impaurita perché ha visto il marito nel parcheggio del centro educativo che la fissa da lontano, allora è nervosa e poco concentrata. Oppure arriva sorridente, la voce sottile, gli occhi dolci, l’espressione distesa, sono i momenti in cui parla compiaciuta del figlio elogiandone le virtù.

Altre volte sfodera la sua formidabile ironia, mostrandosi capace di battute argute e di riflessioni profonde. Poi ci sono i momenti in cui è il suo lato triviale ad emergere, allora diventa rabbiosa, volgare, senza freni, dalla sua bocca può uscire di tutto.

La storia di Brigida si può sicuramente definire traumatica laddove il trauma psicologico è generalmente definito come “un’insostenibile e inevitabile esperienza minacciosa singola o continuativa nei confronti della quale la persona è impotente (Krystal,1988; Herman,1992b; VanderKolk,1996). È chiaro che il potere traumatizzante di un evento dipende non solo da quanto sia dannoso o minaccioso ma anche da quanto travolga le capacità dell’individuo di farvi fronte (Herman,1992b)”. Quindi, se il concetto di trauma si riferisce a qualunque evento che porta con sé un profondo senso di minaccia alla vita, il trauma complesso comporta un senso di minaccia prolungato e reale, ancor più se proviene dalla famiglia a cui si appartiene che dovrebbe offrire cura e tutela.

In questa vicenda il trauma non si riferisce ad un singolo evento o situazione, ma nasce da un intero sistema familiare dove ciascun soggetto ha agito tutte le forme di violenza alimentando un clima di perenne imprevedibilità, terrore, ostilità.

Quando Brigida mi ha raccontato gli episodi di violenza mi è venuto in mente un articolo letto tempo fa della Chasseguet-Smirgel che, a proposito dell’abuso, afferma: “…Su questo palcoscenico, (quello dell’abuso), in cui immagine e rappresentazione dell’altro si scollano dalla realtà effettiva di azioni ed intenzionalità, si entra nella tendenza ad erodere i confini del possibile, a rendere possibile l’impossibile, cioè ad entrare nel mondo dell’impensabile, sia per quanto riguarda le esperienze dolorose dei bambini, sia per quanto riguarda il contatto con l’abusante…”. Ecco la storia di Brigida mi fa pensare all’impensabile per il notevole carico di sofferenza, tensione e impotenza che si è generato.

Eppure per lei l’abuso sessuale, per quanto precoce, reiterato, multiplo, non ha costituito il peggiore dei mali e neanche i maltrattamenti fisici e le minacce, perché ad un certo punto diventano prevedibili e colpiscono solo il corpo, ma è l’essersi sentita invisibile tutta la vita che non riesce a tollerare.

Invisibile vuol dire non essere chiamati per nome, non poter scegliere, non essere considerati, significa ingrassare fino a 150 kg. affinché qualcuno ti noti e anche se ti dice che sei brutta e grassa almeno ti ha visto.

Cosicché non essere visti, riconosciuti, non avere nessuno a cui rivolgersi per sentirsi al sicuro, è stato sicuramente sconvolgente o addirittura distruttivo se si pensa a lei piccola, in cerca del suo posto nel mondo.

Un’altra parola che Brigida usa spesso è rassegnazione che vuol dire anche sfiducia e insicurezza verso se stessa e il mondo e la cosa non stupisce!

Un’ampia letteratura ha oramai evidenziato che il senso di sicurezza, di fiducia e di affidamento si acquisisce nel corso dei primi anni di vita grazie alle figure di accudimento con cui si è in relazione. Questo indica che un’esperienza primaria di cura e di accoglienza adeguata favorisce una relazione con il mondo basata sull’ ottimismo, la fiducia e apre alla speranza e alla capacità di autodeterminazione. Quindi, quando un genitore benevolo si mostra attento e sensibile all’individualità e dignità del proprio figlio, questi si sente valorizzato e rispettato e, soprattutto incoraggiato a sviluppare la stima di sé e il senso di autonomia. I toni di Brigida vanno in tutt’altra direzione: “ Il torto è sempre dalla mia parte”, afferma spesso, annichilita dalla profonda convinzione di non poter accedere alla dimensione del desiderio, del sogno, di non poter fare progetti, sicura com’è che poi andrà male, come quella volta che tentò un concorso, ma il giorno prima si fratturò un braccio in un incidente, vanificando, di fatto, la possibilità di emanciparsi.

E poi c’è la rabbia, intensa, spaventosa, che quando arriva somiglia ad una di quelle tempeste di pioggia improvvisa capace di devastare ogni cosa. Ne sono stata travolta anche io in più di un’occasione specie quando si toccano temi molto dolorosi che la fanno esplodere, mettendo a dura prova sia la tenuta del setting sia il prosieguo della terapia.

Credo che questo sia uno dei punti più critici del percorso perché l’obiettivo dovrebbe essere di trasformare questa rabbia agita in qualcosa di “pensato” che le possa consentire di accettare ed integrare il suo passato nel suo presente con uno sguardo magari anche sul futuro. Ci stiamo provando!

Maria Rosaria Compagnone

Specializzata in Psicologia - Psicoterapia - Psicodiagnostica - Mediazione familiare

4 Comments

  1. Molto interessante e purtroppo anche triste questo pezzo di vita della sua paziente che lei ha voluto condividere con noi. Mi auguro che, alla fine del percorso terapeutico, Brigida trovi in po’ di pace, per sé e per suo figlio.
    Molto gradevole leggere questa esperienza sotto forma di racconto, rende il lettore più predisposto e attento a ciò che sta leggendo. Grazie.
    Loredana Boccarusso

    • Grazie. Nelle prossime settimane ci saranno altre puntate che analizzeranno altri aspetti di questa vicenda e infine un aggiornamento della situazione attuale

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