A Freetown con Federico Monica

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E’ da tempo che sogno di andare in Sierra Leone. Mi ha sempre affascinato la storia di questo Paese, che nacque alla fine del 1700, quando il territorio fu venduto da un re indigeno all’Inghilterra, che aveva il progetto di dare rifugio agli africani senza patria e agli schiavi liberati. Ho nutrito particolare interesse anche per la storia recente della Sierra Leone, che ha portato questo piccolo Paese alla ribalta delle cronache, con la guerra civile che, scoppiata nel 1991, si conclude solo nel 2002 e mette in evidenza il fenomeno atroce dei bambini soldato, e anche con l’epidemia di ebola del 2014.

Per una serie di circostanze ancora non sono riuscito a realizzare il sogno di questo viaggio, ma poche settimane fa, grazie al libro Freetown, di Federico Monica, pubblicato dalla casa editrice OG zero nella collana “Le città visibili”, sono riuscito a viaggiare in maniera virtuale. Pur non conoscendo di persona l’autore, mi sembra quasi di essere un suo amico, perché Federico collabora con la rivista Africa, che io leggo regolarmente da dieci anni. Monica è architetto e urbanista, specializzato nell’analisi delle città e degli insediamenti informali in Africa subsahariana. E’ consulente per ong e organismi internazionali su progetti di sviluppo urbano, pianificazione partecipata, architettura sostenibile e infrastrutture. Ha realizzato progetti e ricerche in 15 Paesi del continente africano. E’ stato per la prima volta a Freetown nel 2003, e da allora non ha mai smesso di occuparsene, tramite ricerche, progetti, racconti.

L’editore presenta il libro con queste parole: Freetown, terzo volume della collana Le città visibili, è opera di Federico Monica, architetto e urbanista che ci conduce da una pagina all’altra di questo libro illustrato da foto e mappe nel caos della capitale della Sierra Leone, in cui i concetti classici di centro e periferia sembrano vacillare: il mare da un lato e le montagne dall’altro riducono al minimo gli spazi liberi ed è così che a poche decine di metri dal palazzo presidenziale si accumulano baracche brulicanti di vita e i vetri del grattacielo della banca centrale si sovrappongono allo sfondo di una discarica avvolta dai fumi. Tutto si stratifica e tutto si mischia in questa città complessa e dal nome meraviglioso e ingombrante. La terra della libertà: può esistere luogo più dolce? Forse no, ma quanto è rimasto oggi di quel sogno di libertà? Quanto è stato spazzato via dal correre della storia, dalle tragedie che con cinica puntualità colpiscono questa gente? La vita e la morte sono legate indissolubilmente in queste terre, giocano a rincorrersi, si mischiano una nell’altra e fanno parte della medesima realtà.

Il libro è concepito come un viaggio, attraverso le diverse aree di Freetown, e in ogni area l’autore si fa accompagnare da un cicerone, che con le sue parole accompagna anche noi alla scoperta del quartiere; si tratta non solo di un viaggio nello spazio, ma anche nel tempo, grazie a Thomas, Henrietta, che ci raccontano la nascita di questa città. Tanti altri ciceroni accompagneranno Federico e noi: gli ex bambini soldato ci racconteranno la guerra civile, un giornalista ci spiegherà tutti gli ostacoli che si incontrano per scrivere e pubblicare un giornale libero, Yvonne ci racconterà la sua esperienza di sindaco (a proposito, è stata appena rieletta), la giovane Aminata parlerà invece del suo lavoro di venditrice di strada, Hawa il suo lavoro di infermiera, Mohamed quello di tassista…

Mentre leggevo il libro mi sembrava di essere lì, con l’autore e con tutti gli abitanti di Freetown e, alla fine del libro, che si conclude con le parole di una vecchia poesia di Birago Diop, ho provato la nostalgia che provo alla fine di un viaggio che mi ha particolarmente toccato. Ora ne sono sicuro, un giorno visiterò la Sierra Leone e Freetown, la città libera, anche se non so ancora quando.

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