Noi diversi: la sensibilità degli esclusi

di Veselin Markovic

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Ci sono libri che si presentano diversi, nel senso di particolari, fin dal titolo, come appunto “Noi diversi” di Veselin Markovic, pubblicato qualche anno fa ma giunto in Italia solo a fine 2019, grazie alla casa editrice Voland, sempre attenta, tra le altre cose, alle letterature dell’est Europa, con l’ottima traduzione di Anita Vuco.

Markovic è uno scrittore serbo, nato a Belgrado nel 1963, che attualmente vive in Francia. Da questa breve biografia qualcuno potrebbe pensare che questo romanzo, che ha vinto numerosi premi ed è stato tradotto in diverse lingue, parli della guerra e del recente passato della ex Jugoslavia, ma così non è. Il romanzo, ambientato in un paese in riva al lago, ci racconta di due bambini particolari, che personalmente non esito a definire speciali: Vladimir e Valentina. Il primo è un bambino di rara sensibilità, coprotagonista di un incidente sul lago ghiacciato, incidente che cambierà la vita, non solo sua, ma quella di tutta la famiglia. La seconda una bambina nata senza un gene, e per questo destinata a sottoporsi a trattamenti medici per tutta la vita; la mancanza di questo gene le causa, tra le altre cose, un colorito giallognolo della pelle e degli occhi, che rende la sua diversità ben visibile.

Bambini diversi, dunque, e per questo isolati. Sappiamo tutti che la diversità è ricchezza, ma sappiamo anche che troppo spesso la diversità porta esclusione, e proprio questo isolamento porta i protagonisti a compiere un percorso interiore, che questo romanzo ci racconta. I due protagonisti si incontrano solo tre volte in tutto il romanzo; le loro storie scorrono parallele, in un alternarsi di capitoli in cui si racconta la storia di lui e quella di lei, dall’infanzia fino alla soglia dei 30 anni. In entrambe le storie vi è un momento in cui c’è un mistero da risolvere: il perché dell’incidente sul lago ghiacciato per lui, una brutta faccenda di violenza domestica nella famiglia di un suo ex fidanzato per lei, tanto che quei capitoli prendono il ritmo di un romanzo giallo.

Uno dei pregi di questo autore è proprio quello di mescolare i diversi generi (romanzo d’introspezione, romanzo giallo…), evidenziando che non ci sono generi maggiori e generi minori (purtroppo questa è una credenza ancora troppo diffusa, basti pensare che ancora oggi gli scrittori di romanzi gialli, o quelli per l’infanzia, non hanno mai ricevuto, non dico il Premio Nobel, ma nemmeno il Premio Strega), ma solo libri ben scritti e libri che non lo sono. Leggendo questo libro, al di là della storia dei protagonisti, non si può non riflettere su noi stessi, sulle nostre diversità, piccole o grandi che siano, e quante volte queste abbiano causato esclusione; si riflette anche su quante volte abbiamo escluso, magari senza comprendere, a causa delle diversità di coloro che ci circondano.

Nel romanzo, il padre del protagonista, allora un bambino di dieci anni, gli spiega il punto cieco, contrariando la madre, che pensa sia troppo presto per una lezione del genere. Il bambino ricorderà quella lezione per tutta la vita: Ero troppo piccolo, ma non ho dimenticato. Nei giorni successivi cercai di individuare il mio punto cieco, ma allo stesso tempo avevo paura di riuscirci. Mi fermavo davanti alla biblioteca di famiglia. I libri occupavano l’intero campo visivo, e io mi chiedevo quali vedessi sul serio, e quali invece fossero un prodotto della mia mente. Una notte, quando la casa si fece calma e silenziosa, mi misi la giacca e uscii nel portico per osservare le luci della città in riva al lago; alcune case all’improvviso scomparivano nel buio, perciò non sapevo se ero io a non vederle più, oppure avessero spento la luce. Ecco, forse è questo lo scopo di questo libro, spingere il lettore verso il proprio punto cieco, ciò che è davanti ai propri occhi ma non si riesce, o non si vuole, vedere.

Già pubblicato su Sconfinamenti, nel aprile 2021

1 Comment

  1. Molto interessante, Maurizio. Soprattutto l’approccio critico al “punto cieco”, il bisogno di non accontentarsi della prima sensazione, di cercare sempre di avvicinarsi alla verità attraverso i cambiamenti del punto di vista.
    Una grande lezione in tempi di categoriche (e ghettizzanti) certezze.

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