Quel che non ha nome: il dolore diventa letteratura

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Confesso la mia ignoranza: fino a qualche settimana non sapevo chi fosse Piedad Bonnett ma, dopo averne letto gli elogi da parte di Annie Ernaux e Mario Vargas Llosa, mi sono documentato. Ho scoperto così che la Bennett è una poetessa, scrittrice e drammaturga colombiana, laureata in filosofia e letteratura presso l’Universidad de los Andes, dove ha insegnato per oltre trent’anni.

Volevo leggere qualcosa di questa scrittrice e, cercando in internet, ho visto che un suo libro del 2013, Quel che non ha nome, è stato recentemente pubblicato in italiano, dalle edizioni Codice, con la traduzione di Alberto Bile Spadaccini.

L’editore presenta il libro con le seguenti parole: Daniel Segura ha ventotto anni quando si arrende ai propri demoni e si lancia dal tetto di un edificio di New York, dove frequenta un master in arte alla Columbia University. La madre, la poetessa e drammaturga colombiana Piedad Bonnett, elabora la tragicità del lutto ricostruendo la vita di Daniel, il percorso della sua malattia mentale e infine il suicidio attraverso libri, ricordi e testimonianze, ma anche attraverso le lettere, i diari e le sue opere. Seguiamo così Daniel bambino, poi adolescente e infine giovane tormentato tra Bogotá e New York, prima e dopo l’arrivo dei disturbi che ne invaderanno corpo e mente. Le parole cercate con urgenza da Bonnett provano a esprimere un dolore che va oltre i confini del dicibile. Il desiderio è quello di non far soccombere Daniel alla staticità della foto ricordo, e di dargli movimento.

In questo testo la Bennett racconta l’indicibile, il dolore per la perdita di un figlio,dolore aggravato dalle modalità dell’evento. E’ facile, scrivendo di un tema simile, scadere nel patetico, nel mieloso: è quello che accadrebbe alla maggior parte di noi, ma ciò non accade alla scrittrice colombiana, che si serve della letteratura e delle parole di tanti colleghi illustri, dalla Ernaux a Marias, da Cadenas a Amery, da Nabokov a Borges per raccontare, per riflettere assieme al lettore.

Così facendo, ridona la vita al suo Daniel, trasformandolo in letteratura. Lo scrive lei stessa, alla fine del libro: «Ho provato a dare alla tua vita, alla tua morte e alla mia pena un senso. Altri innalzano monumenti, incidono lapidi. Io ti ho di nuovo partorito, con lo stesso dolore, per farti vivere un altro po’, per non farti sparire dalla memoria. E l’ho fatto con le parole, perché loro, che sono mobili, che parlano sempre in modo diverso, non pietrificano, non fanno le veci di una tomba. Sono il poco sangue che posso darti, che posso darmi.»

Uno scritto intenso, drammatico, imperdibile.

2 Comments

  1. ‘ Uno scritto intenso, drammatico, imperdibile.’ Già da quelle poche frasi dell’auttrice si sente quanto sia vero. Grazie per aver scoperto un’altra perla.

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