Le impazienti: patriarcato in salsa africana

Inizia

Quando, dieci anni fa, visitai le regioni del nord e dell’estremo nord del Camerun, entrai per la prima volta in contatto con l’Africa dell’uomo. Con uomo intendo il genere di sesso maschile, perché i miei contatti con le donne si limitarono a incontrarle ai mercati, o tra gli impiegati degli hotel. La donna era sempre un passo indietro all’uomo, in tutta l’area che visitai.

Entro in contatto con l’Africa della donna dieci anni dopo, grazie alla lettura del libro Le impazienti, di Djaili Amadou Amal, pubblicato da Solferino con la traduzione di Giovanni Zucca, e ambientato proprio nelle regioni da me visitate. L’autrice, originaria del Camerun, di madre egiziana e padre fulani, fu data in sposa a diciassette anni a un cinquantenne di buona famiglia, ma riuscì a liberarsi dal marito fuggendo a Yaoundé. Qui comincia una nuova vita lavorando, scrivendo e fondando un’associazione per l’istruzione femminile, diventando “la voce dei senza voce”. Il suo terzo libro, Le impazienti appunto, esce in Camerun nel 2017 e riceve il Premio Orange du Livre en Afrique. L’edizione francese vince invece il Prix Goncourt des Lyceens 2020.

Riassumo la trama con le parole del risvolto di copertina. Camerun, Regione del Nord: tre donne, tre matrimoni, un unico destino. Ramla ha diciassette anni ed è costretta dal padre a lasciare gli studi e a sposare un uomo di cinquanta. Crede che sua sirella Hindou sia più fortunata di lei, perché il suo promesso sposo Moubarak di anni ne ha solo ventidue, e non è brutto, tutt’altro. Ma sbaglia, perché Hindou sa bene di che pasta è fatto suo cugino e qualsiasi sorte sarebbe per lei meglio che essere data in sposa a lui. Safira, trentacinque anni, per ventidue è stata la prima e unica moglie di Alhadji Issa, l’uomo più importante della città. Fino al giorno in cui Ramla non entra in casa sua come «co-sposa», e i suoi occhi cominciano a consumarsi dalla gelosia.

Per nessuna di loro c’è una via di fuga, una strada diversa che non le consegni all’istante alla riprovazione sociale, alla gogna pubblica. L’unico antidoto alla sofferenza, alla violazione, l’unica soluzione che viene loro additata, il basso continuo delle loro esistenze interrotte, è la pazienza, nel nome di Allah. La capacità senza limiti di sottomettersi, nascondere, accettare di buon grado, senza un pianto, un lamento, un grido. In questa prova sta il valore di una donna, su questa scala si misura la sua virtù. Grazie alla pazienza si può sopravvivere. Grazie alla pazienza di tante come loro, tutto un sistema sociale può sopravvivere. Con questo romanzo polifonico Djaïli Amadou Amal ci riporta a un universo sommerso, tribale, in cui la femminilità non ha diritti e il rapporto fra i sessi è fondato sulla prepotenza. Scortica, disseziona, riduce all’osso i meccanismi di una cultura patriarcale progettata per schiacciare le donne, mostrandoci i danni irreparabili che produce, la sua intrinseca violenza. Una violenza cui le donne stesse si condannano, nel momento in cui rinunciano ai sogni per abbracciare i doveri, insegnando alle proprie figlie a fare lo stesso. Così Amal ci insegna a guardare con sospetto, sempre e ovunque, chi ci chiede di «pazientare » a ogni costo, mettendoci in guardia contro la subdola minaccia che in questo invito si annida.

La storia che l’autrice ci narra è una storia di finzione, ma chiaramente ispirata a fatti reali, partendo dal vissuto dell’autrice stessa. Munyal, pazienza, è la parola chiave e il filo conduttore di tutto il romanzo. Il libro mette ben in evidenza come il patriarcato sia presente a tutte le latitudini, e come questo vada combattuto sempre, con tutte le armi, prime fra tutte la consapevolezza e l’istruzione. Questo romanzo mi ha ricordato un altro romanzo, che vi avevo proposto tempo fa, ambientato in Abruzzo negli anni ’40 del secolo scorso: Le deboli, di Flora Fusarelli. Ed è proprio Flora Fusarelli che debbo ringraziare per la lettura di questo libro; grazie a una sua segnalazione ho scoperto questo romanzo, che mi auguro possa piacere anche a voi.

4 Comments

  1. Grazie della segnalazione Maurizio e per ricordarci di quanto la strada per un mondo più equo sia ancora lunga.
    Ovviamente io vivo nel privilegio del mio
    Essere donna, bianca , istruita in una società occidentale . Nonostante ciò riesco a intravedere le ombre che anche l’educazione delle bambine della mia generazione ha creato. E la prossima volta che mi verrà da dire a mia
    figlia di avere pazienza non potrò che fermarmi un attimo e valutare bene la scelta delle parole o del silenzio

  2. Grazie Maurizio. Bella prospettiva… anche se non certo edificante. Ebbene si: bisogna avere pazienza con i dolori mestruali (anche se a volte nascondono patologie complesse e sono comparabili a doglie o infarti), avere pazienza se ti pagano meno dei tuoi colleghi, avere pazienza se non ti è permesso “negoziare” il tuo salario… e la lista continua. In questi casi non so davvero se la pazienza sia una virtù o una trappola.

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