Il 7 aprile di 30 anni fa cominciava il genocidio del Ruanda, che comportò lo sterminio di centinaia di migliaia di abitanti della popolazione tutsi e di diverse migliaia di hutu moderati. Non c’erano i social allora, seguivamo tutto tramite giornali e televisione e cercavamo di capire l’incomprensibile, volevamo una spiegazione al fatto che fratelli uccidessero degli altri fratelli, vicini di casa perseguitassero altri vicini, insegnanti ammazzassero i loro studenti. Giurai a me stesso che, un giorno, sarei andato a visitare questo martoriato paese, e così feci nel 2019, in occasione del venticinquesimo anniversario di questa tragedia.
Stavo preparando il mio ennesimo (lo so, vi ho raccontato solo del secondo, finora) viaggio in Uganda con il mio amico Jack, e gli chiesi di abbozzarmi un tour del Ruanda, cosa che Jack fece in men che non si dica. Atterrai a Kigali, Jack mi aspettava all’aeroporto e insieme facemmo un rapido giro della città. Mi impressionò la pulizia e la mancanza di caos, tutto sembrava perfetto. Le strade erano eleganti, si respirava ricchezza, i ristoranti e gli hotel, compreso il mio, erano di alto livello. Jack mi lasciò in albergo e io andai a mangiare in un ristorante nella stessa strada dell’hotel. Mi accorsi di una cosa buffa, che avrei potuto constatare durante tutto il viaggio: nel nostro dialogare in inglese, molti abitanti invertivano la pronuncia di “r” e “l”. Pensavo si trattasse di una mia impressione, ma poi la sera, in albergo, leggendo la guida, trovai conferma di questa particolarità. Mi accorsi anche che la vita era molto cara, i prezzi dei ristoranti e degli alberghi erano paragonabili a quelli delle capitali europee più chic.
Per questo viaggio mi ero preparato molto in anticipo leggendo tantissimo, non solo sul genocidio. Illuminanti per me erano state le letture dei saggi Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie di Philip Gourevitch, e Oggi disegneremo la morte di Wojciech Tochman, oltre che diversi romanzi. Avevo imparato che non è educato chiedere del genocidio, delle famiglie di origine, domande considerate troppo personali, eppure sentivo il desiderio di sapere, di scoprire di più, di provare, almeno parzialmente, a capire. Così cominciai a chiacchierare con il giovane ragazzo della reception. Non gli feci domande dirette, ma iniziai a raccontargli dello scopo del mio viaggio, e lui automaticamente si aprì. Era nato proprio nei giorni del genocidio, ma in Burundi, dove la sua famiglia, di appartenenza tutsi, si era rifugiata. La famiglia tutta tornò in Ruanda diversi anni dopo. Mi raccontò che, nonostante la calma apparente, la vita quotidiana era veramente singolare, perché le persone, che erano tornate a vivere nelle stesse abitazioni di prima del genocidio, si incontravano regolarmente, e così i parenti delle vittime incrociavano gli assassini tutti i giorni.
La mattina dopo, come prima cosa, andammo a visitare il Kigali Genocide Memorial. Jack ci era già stato, naturalmente, io mai. L’emozione fu forte e anche adesso, cinque anni dopo, non trovo parole adeguate a descrivere quello che provai. Posso consigliare di navigare sul sito internet ed effettuare un tour virtuale del luogo e provare a immaginare le mie sensazioni. Non posso dimenticare però le testimonianze dei sopravvissuti, e i loro messaggi presenti nel giardino del memoriale. Donata, 11 anni: “A volte mi sento tristissima perché non riesco a immaginare come sarà la mia vita. Non rivedrò mai più i miei genitori, eppure vedrò i loro assassini, e i figli dei loro assassini, per il resto della mia vita. Non riesco a sopportare questo pensiero”. Bernard, 16 anni: “Non ho fotografie dei miei genitori. Non ho trovato alcun souvenir dei miei genitori o dei miei fratelli e sorelle. Mi piacciono la pallavolo e i film, queste due cose mi danno coraggio. Mi piace anche leggere autobiografie di persone che hanno sofferto molto. Sono una consolazione per me. La preghiera è anche molto importante”.
Durante tutto il viaggio, lungo la strada si trovavano memoriali, piccoli o grandi, che di volta in volta visitavamo. Il mio obiettivo finale era però il memoriale di Murambi, nel distretto di Gikongoro, nel sud del Paese. Questo museo del genocidio è ospitato in una scuola, per una ragione molto semplice: quando i massacri cominciarono, i tutsi della zona cercarono rifugio in chiesa, ma il vescovo e il sindaco tesero loro una trappola, conducendoli nella vicina scuola tecnica, con la scusa che le truppe francesi li avrebbero protetti meglio. Il 16 aprile, circa 65000 tutsi si erano recati nei pressi di quella scuola. Una volta lì, furono lasciati senza cibo nè acqua. I soldati francesi scomparvero e, quando i tutsi si furono indeboliti abbastanza, vennero attaccati e uccisi.
All’ingresso del museo vi era una donna vecchia, minuta, che, sorridendo, venne ad abbracciarmi. Non sapevo chi fosse, ma mi ricordava mia nonna Carmen che, a causa delle sue dimensioni ridotte, io chiamavo nonna Carmeletta. Fu naturale per me ricambiare l’abbraccio, mi venne spontaneo stringerla fortissimo. Scoprii che era una dei pochissimi sopravvisuti (mi pare fossero 34 in totale) al genocidio di Murambi, e si guadagnava da vivere facendo le pulizie nel museo.
La particolarità del memoriale di Murambi era la presenza di cadaveri mummificati ed esposti in apposite sale, così come le ossa di tutti i tipi, appartenute a persone sepolte nelle fosse comuni e poi riesumate. Visitai così, assieme ad altri due turisti e nel silenzio più assoluto, la sala delle ossa delle gambe, quella delle ossa delle braccia, e poi la sala forse più impressionante, quella dei teschi. Alcuni crani avevano ancora i capelli… C’erano ossa di neonati, di bambini, di persone anziane…
Il 21 aprile di ogni anno si commemorano le vittime di Murambi.
Il Ruanda è, ovviamente, molto di più del genocidio del 1994. E’ un Paese meraviglioso e moderno; quando lo visitai, il suo parlamento era uno dei pochissimi al mondo a maggioranza femminile. Vi racconterò del suo volto luminoso la prossima volta.
Purtroppo la storia non insegna e commettiamo sempre gli stessi errori. È un vero peccato!
Grazie mille per il tuo racconto . Mia figlia grande è nata il 7 aprile 1992 e ricordo che chiudevo la tv durante il telegiornale perché era tutto così crudele e incredibile che cercavo di proteggerla così . Da lì dove tanti venivano barbaramente trucidati , a qui nel centro del benessere era troppo anche per me . Pace.
Fa male leggere e ricordo solo vagamente quel periodo e le notizie.
Ma anche se fa male bisogna sapere.
Grazie Maurizio
Ancora un viaggio “della memoria”. Se soltanto potessimo, noi umani, non odiare !
Grazie Maurizio!!!!
Grazie Maurizio! Leggerti è sempre un piacere! Le tue parole sono il modo migliore per non dimenticare!
[…] il genocidio del Ruanda del 1994, molti dei giovani sopravvissuti, soprattutto studenti universitari e delle scuole […]