Faccio spesso fatica a trovare, tra i narratori italiani contemporanei, coloro i quali cercano di scrivere un romanzo sociale, un romanzo che descriva la società in cui viviamo. Fa eccezione l’ultima mia lettura, Hijra, pubblicata da Fandango, che offre una boccata d’aria fresca nel panorama letterario italiano.
L’autore, al suo primo romanzo, è Saif ur Rehman Taja, nato nel 1994 a Rawalpindi (Pakistan) e lì vissuto fino all’età di undici anni, quando si trasferì a Belluno. Dall’età di vent’anni vive a Bologna, dove si è laureato in Scienze pedagogiche. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca presso l’università di Siena. I suoi ambiti di ricerca riguardano principalmente la multiculturalità e la “Critical Race Theory”, con un focus sulle dinamiche di potere e sulle pratiche di razzializzazione come strumento della classe dominante (principalmente europea) per mantenere lo status quo della bianchezza.
L’editore presenta il libro con le seguenti parole: Per Saif c’è un prima e un dopo, il prima è l’infanzia a Rawalpindi, insieme ad Amma Shakeela, sua mamma, i due fratelli minori e la grande famiglia del nonno materno, tutti dentro la stessa casa con il cortile scoperto da cui entra la pioggia e si vede il cielo, con la ritualità delle spezie e il cibo in comune, come anche i problemi; un dopo solitario a undici anni, quando Amma raggiunge Abba Shabbir, suo padre, in Italia, con i figli minori.
Il dopo sono i due anni di attesa prima di raggiungerli, esposto ai pericoli per il suo essere non conforme, perché Saif ama ballare, ama cucinare, ama pettinare i capelli delle cugine, tutte attività per “femmine”.
Ma il dopo è anche l’Italia, il ricongiungimento con i genitori a Belluno, accerchiato dalle montagne, lontano dagli odori conosciuti e dagli amici, sommerso dalla neve e dal pregiudizio che per la sua pelle e la sua cultura tutti gli cuciono addosso.
Quando torna in Pakistan, lo accolgono come il nipote italiano, che non può rappresentare le tradizioni familiari. Entrambi i paesi prendono le distanze da lui poiché non è “puro”. Troppo pakistano per gli italiani, troppo italiano per i pakistani, un apolide involontario, senza un paese che lo accolga e senza una famiglia che lo riconosca, perché Saif è omosessuale, o come dice il padre, un hijra, un mezzo uomo da virilizzare a forza di botte.
Come si conquista il diritto a definirsi in autonomia quando tutto ciò che ti riguarda sono etichette di altri?
Come si disegna l’identità all’interno di un universo oppositivo?
Un ragazzo in bilico tra due culture, ostaggio di un doppio pregiudizio, determinato a decidere da sé sui propri desideri, sulla propria identità e sulla propria appartenenza.
Non so se questo libro sia al 100% l’autobiografia dell’autore e, detto francamente, non è neppure importante saperlo. So però che questo libro racconta l’Italia di oggi, ma anche quella di ieri. Più di una volta, leggendo le avventure/disavventure del protagonista, mi sono reso conto che la sua storia di migrazione aveva dei punti in comune con la mia. E non sto parlando del mio trasferimento in Svizzera sedici anni fa, ma del mio migrare nel nord Italia ventisei anni fa. “Se Filippo ruba una caramella, la ruba lui e basta. Se la rubo io, la rubiamo noi pakistani, tutti. Se Filippo fa una cazzata è una ragazzata, mentre io, che sono pakistano, sono così di natura: un ladro. Io non sono più io, sono l’ambasciatore del mio paese”. Se spostiamo indietro nel tempo questa descrizione, e se sostituiamo le parole Pakistan/pakistano con Napoli/napoletano, l’autore sta descrivendo la mia esperienza di migrazione.
Altro tema importante del libro è l’omosessualità del protagonista, e la difficoltà dei genitori ad accettare questa condizione. “A me piacciono i ragazzi. Ne sono consapevole. E mi va benissimo. Consapevolezza e accettazione. La distanza fra questi due momenti, per me, probabilmente non esiste. Oppure è stata così breve che non me ne sono accorto”.
Commette un errore chi legge questo libro pensando che si tratti di narrativa LGBT. Si tratta anche di questo, ma nel romanzo c’è molto di più. E’ un romanzo sull’identità che, come molti delle giovani generazioni hanno già capito, vuol dire molteplicità, intersezionalità. Noi tutti siamo tante cose allo stesso tempo. E, come dice il protagonista, il futuro appartiene ai meticci, ai bastardi.
C’è un refuso nel testo: ur Rehman Raja
Ho corretto, grazie.
Quanto male possano fare i pregiudizi e la facile “classificazione” degli altri. Quotidianamente, in questa Italia che precipita sempre più verso un totalitarismo razzista, ignorante e omofobo, abbiamo il dovere di difendere i singoli e i diritti di ognuno, nonché di resistere e costruire una valida alternativa. Perché nessuno mai più debba essere giudicato e respinto per il colore della pelle o per la sua scelta sessuale.
Grazie Maurizio